Paolo Castelli - Accademia dei Catenati - Macerata

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Paolo Castelli

L'accademico Arch. Paolo Castelli è stato festeggiato nel giorno dei suoi 90 anni nella Sala Castiglioni della Biblioteca Mozzi Borgetti. La festa, promossa dalle Associazioni Punto e a Capo e GAM con il patrocinio del Comune, della Provincia e dell'Ordine degli Architetti, ha visto la partecipazione di esponenti delle istituzioni, di un'ampia parte del mondo professionale ed artistico, di numerosi amici ed estimatori.

Macerata,  Sala Castiglioni della Biblioteca Mozzi Borgetti, 22 marzo 2014


Elogio
di Lucio Del Gobbo


Penso che si debba guardare all’architetto Paolo Castelli come a un maestro (detto senza alcuna enfasi o piaggeria). Chi vi parla non è architetto e non si reputa la persona più adatta  per un esame “professionale” del suo curriculum, ma la sua vicenda appare così coerente e consequenziale, vasta e articolata da essere considerata esemplare e istruttiva per il nostro tempo e per la nostra regione. Affermando ciò traduco anche un’interpretazione  e un desiderio che colgo in Castelli anche per questa circostanza, quello cioè di rivolgersi ai giovani architetti in particolare, per spronarli e consigliarli, sulla base delle sue esperienze, nella loro attività presente e futura.
E comunque, l’attributo di “maestro” in tal caso non vale solo per la sua attività principale di architetto; ha una significato più generale, e va esteso alla sua intera esperienza e  personalità, di professionista e architetto sì, ma soprattutto di “uomo sociale”, per la concretezza, l’assiduità e la positività della  sua azione nel contesto civile.
La partecipazione di Castelli al sociale è costante, lo si evince anche dalla tipologia delle opere a cui si è maggiormente dedicato: l’edilizia civile e popolare, agli inizi, le scuole, alcune chiese, numerose sedi di Enti pubblici e scuole e, soprattutto ospedali. Figurano nel suo curriculum: Ospedale di Siena (per il quale fu vincitore ex aequo negli anni 60), Ospedale San Severino, Ospedale di Perugia, Ospedale di Fabriano, Ospedale di Macerata (con Luigi Cristini e G.M.). Dalla fine del 1900 il suo Gruppo Marche partecipa a più di 200 gare nazionali ottenendo notevoli successi in varie parti d’Italia,  vincendone una ventina.
Il più recente successo del Gruppo di cui Castelli è presidente onorario, ora diretto da suo Figlio arch. Alessandro, è l’ Ospedale di Trieste; Un programma importante, da affrontare in collaborazione con altri studi d’architettura internazionali, la cui aggiudicazione è motivo di grande soddisfazione e di lavoro a lungo termine.

Intensa è anche la  partecipazione di Castelli al dibattito sull’urbanistica e varie altre questioni inerenti a situazioni di ambito provinciale e regionale. La sua polemica, quando si è dato il caso, è stata sempre leale e schietta, senza inibizioni né retro pensieri. Spesso contro i suoi stessi interessi (si consideri il caso del concorso vinto per la sede centrale della  Cassa di Risparmio di Macerata, poi realizzata da altri. Castelli non volle recedere su modifiche al progetto che gli venivano imposte dai committenti).
Una positività, la sua, che non si fonda sulla mera scaltrezza ma sulla capacità del fare, non sulla furbizia ma sull’intelligenza e su un’esemplare onestà intellettuale.

Le sue scelte personali, anche quelle professionali, sono permeate da un  forte idealismo e da un altrettanto forte senso morale: una missione insomma. Dopo la morte improvvisa di un giovane suo amico, sconvolto dal dolore, Castelli capì che – cito da un suo scritto - che la cosa migliore per non avere paura di morire era convincersi di essere destinato a fare qualcosa di importante: magari qualcosa che servisse a cambiare il mondo un poco.
Potrebbe sembrare utopistico un simile progetto, ma non lo è se riferito al suo mondo, a una dimensione personale e di impegno.

I tempi dell’Università a Roma costituiscono la fase “eroica” di questa storia. Tra il 42 e il 47 in periodo di guerra e di drammatico dopoguerra. Trasferimenti con precari mezzi di locomozione, e tratti in bicicletta e a piedi, per sopperire a qualche carenza all’epoca esistente nei trasferimenti tra Roma e Camerino, “il paese sulla collina” che ha sempre considerato la sua vera patria. A Roma, periodo vissuto in una solitudine acuita dalle dimensioni della grande città, si è formato in compagnia dei suoi progetti e dei suoi sogni, a contatto di autorevoli maestri,  dunque periodo di riflessione e di scelte fondamentali.

Le sue scelte in architettura sono state sin dall’inizio orientate verso figure di grandi architetti del nord Europa: Mies Van Der Rohe,  Wright (ma interessato anche ad Alvar Aalto, e a Le Courbisier), proprio sulla base di un  condiviso principio di rinnovamento e di modernità.

Voglio qui richiamare alcuni principi fondanti del suo metodo: la  compenetrazione di spazi dall’interno all’esterno con disposizione, nell’edificio, di fasce aperte al posto dei soliti "buchi" delle finestre; la ricerca di una razionalità commisurata all’uso, e alla "ragione" sia estetica che funzionale del manufatto edile, con l’esclusione di decori e strutture fittizie prese in prestito da un passato inattuale; l’uso di materiali non estranei   per provenienza e caratteristiche al luogo di realizzazione; l’armonizzazione del manufatto con il luogo, sia esso paesaggio naturale o antropizzato e storico, e infine la necessità di progettare e sperimentare attraverso la pratica tradizionale del disegno.
Anche le sue amicizie, e quelle artistiche in particolare, hanno sempre avuto questo orientamento modernista (Tulli, Peschi, Ferrajoli, ecc. Marcelletti e …. (che io considero artista per aver agito come animatore all’interno dell’Istituto d’arte) anche se prive di pregiudizi nei confronti di artisti simpatizzanti invece della tradizione (come Sesto Americo Luchetti, autore della decorazione scultorea della Tomba Moretti nel nostro cimitero, progettata da Castelli e Marcelletti).
Sul suo esempio gli architetti potrebbero e dovrebbero sempre confortare e  patrocinare gli artisti. Nella storia ne troviamo dimostrazioni innumerevoli. Gli artisti hanno meno difese. Gli architetti sono degli artisti  più organizzati ed evoluti in senso sociale ed economico. Questa è una mia impressione che mi piace confidare
Voglio anche ricordare a questo punto la partecipazione di Castelli e del suo Gruppo all’allestimento di una grande mostra d’arte, che si è impressa per importanza e qualità nell’immaginario collettivo di questa città e dell’intera regione, quella sulla Pittura nel Maceratese dal Duecento al tardo  Gotico, realizzata nella Chiesa di San Paolo nel 1971.

Castelli ha sempre voluto rendicontare la sua attività, con scritti e numerosi libri,   non per mettersi in mostra,  ma per un senso di condivisione e relazione con il suo ambiente e la sua città: segno di vicinanza e di amicizia. Il racconto nei suoi libri, pur valido sotto un profilo letterario,  è sempre scrupoloso e preciso nelle date e nei fatti, tanto da essere equiparabile a una “relazione tecnica”, di quelle che si redigono a fine lavoro. Ma essendo la relazione di un architetto (e non di un ingegnere -  come Castelli tiene sempre a precisare!) esprime bene anche quella trasversalità di interessi che oltre ad essere presupposto dell’architettura in sé, è anche suo personale.
Una valutazione che comprende la funzionalità senza trascurare l’estetica; attenta alla costruzione, ma anche al piacere e al benessere che essa è tenuta a procurare. Ne esce un resoconto di lavoro che è anche immagine di umanità, con i suoi aspetti etici e a volte sentimentali.
Nei suoi resoconti entra spesso una figura centrale nella vita di Castelli, quella di sua moglie, a cui ha dedicato uno dei suoi libri “Vivere con Lydia”. È fin troppo scontato a questo punto considerare che dietro a un grande uomo ci sia sempre una grande donna,  ma questo è certamente il caso.

Una parte consistente dei resoconti di Castelli riguarda il Gruppo Marche. Importanti le motivazioni che avevano ispirato, in lui nell’arch. Cristini, l’idea del Gruppo: il fatto di costituirsi come equipe di progettazione con la confluenza di professionisti di varie estrazioni (architetti, ingegneri, geometri) e varia età anagrafica. Una forma di associazionismo per quei tempi da noi nuova e inconsueta. Con impegni che andavano da una funzione sociale, ad una culturale e politica, ed infine alla disponibilità d’essere gruppo aperto a qualsiasi integrazione interdisciplinare, e al confronto con altri settori della tecnica, della cultura e del lavoro.
Quello che lui ricorda come momento il più emozionante, che resterà per sempre impresso nella sua memoria, fu il primo giorno di lavoro nel grande studio ricavato all’interno dell’edificio sede del Gruppo:  “Qua valeva veramente la pena di vivere e progettare e venti anni di preparazione non erano in fondo stati tanti per far concretizzare un simile sogno. In questo meraviglioso studio sarebbe tornato ogni mattina per decenni e per decenni avrebbe progettato”. La presenza di Castelli in quel luogo è tuttora viva, vi si reca ancora  ogni mattina!
Una esperienza condotta tra speranze e disillusioni naturalmente; la pazienza e  la perseveranza, in essa si sono alleate per una morale che in definitiva è stata di ottimismo e positività. E questo sino all’ultima battaglia, la più recente in ordine di tempo, solo giocata in difesa. Quella contro gli eccessi della rivoluzione informatica, con i vecchi “attrezzi” confinati in un apposito museo nei sotterranei del Gruppo. Inevitabili le nostalgie  per il disegno “fatto a mano” e tutte le altre cose che il progresso ha contribuito a cancellare, compresa, detto in generale, un po’ di umanità.

Non è improbabile che proprio la pratica dello "schizzo" e la consapevolezza della utilità di una manualità disegnativa, oltre all'interesse naturalistico, abbiano avvicinato Castelli all’arte figurativa e all’esercizio della pittura, individuando anche in essa la possibilità di sperimentare con analogia di caratteri. Castelli vi si dedica praticandola a suo modo, come deterrente di una razionalità che tenderebbe ad essere sua caratteristica preminente.

Il rapporto con me si è arricchito negli anni di sincera amicizia e di confidenza, grazie a queste materie limitrofe a quelle professionali. L’amicizia è  la ragione per la quale a un certo punto mi chiese di scrivere alcune brevi presentazioni per i suoi libri. Cosa  strana, perché in genere si scelgono per queste cose personaggi importanti, in tal caso invece il superiore chiamava in causa l’inferiore. Per me fu motivo di piacere e soddisfazione, ma è chiaro, dovetti anche vincere una più che giustificata soggezione.

Castelli le sue maggiori certezze le esprime nell’architettura. Il suo rapporto con l’arte è diverso, più incerto e problematico, ma non meno appassionato.
Va considerato che fin dagli anni '50, egli  a Macerata, fondò una delle prime sezioni di "Italia Nostra" ricoprendo la carica di Presidente regionale.
E la sua prima personale, guarda caso la intitolò "A colloquio con le querce"; si tenne nell'aprile 1986 alla Pinacoteca e Musei Comunali di Macerata. A questa hanno poi fatto seguito numerose mostre personali, a Tolentino (1990), a Bologna (1991), a Pedaso (1992), in Ancona (1993), a Macerata (1994), a Jesi (1997) ed ancora a Macerata (1998 - 2014). Assidua  anche la partecipazione a rassegne collettive regionali e nazionali.
“Paolo Castelli dipinge sempre dal vero": è questa l’etichetta che l’autore ha sempre posto a giustificazione dell'opera, per avvertire che nella sua visione l’intento realistico s'impone su ogni altro. È tuttavia interessante rilevare che egli cerchi la natura dove essa è più allusiva ed astratta, quasi smaterializzata e trasfigurata dalla luce.
Personalmente, nelle sue vedute di paesaggi, nei suoi colori, nella spazialità che riesce a tradurre, nelle atmosfere che ottiene ci vedo più poesia che razionalità. La pittura, riesce a condurlo fuori dal progetto  e da ogni intenzionalità. Lo fa divagare, gli fa fare cose a cui non penserebbe e che, spesso, negli altri dice di non capire. Per esempio, mentre la sua visione è figurativa e programmaticamente realista, cioè volta a un’immagine leggibile e scevra di ambiguità, non di rado, con sua sorpresa e imbarazzo, per effetto di un’attrazione del colore e della luce, diventa astratta; si perde dietro a impressioni particolari, trascurando i contorni delle cose, trascurando anche il presunto dovere di una descrizione delle stesse. Con l’arte analizza la sua visione della realtà, attratto forse da quell’ ambiguità  che l’arte annuncia  e fa vivere, ma non spiega. Non tutto in essa  ricade sotto il controllo assoluto dell’artista; c’è qualcosa che sfugge, ed è forse questa la maggior ragione del suo fascino.
Queste le mie impressioni, ma ho comunque rispetto delle ragioni che l’autore dichiara

Nei suoi scritti più volte ha affermato che la pittura, sebbene avesse fatto capolino tra i suoi interessi e le sue attitudini sin dai tempi dell’università, è poi riemersa come vocazione tardiva, cioè trovata in età matura (non voglio dire avanzata ma matura sì) e per delle ragioni specifiche. La prima di queste ragioni, che Castelli stesso dichiara, è che la pittura, a differenza dell’architettura, gli consente di iniziare e in breve tempo di concludere un lavoro, fosse anche in forma virtuale. Questo fatto è liberatorio: mentre nel lavoro di architettura ogni realizzazione ha un iter lungo e pieno di complicazioni (qualche volta l’opera non vede neanche la luce e abortisce in fase di progetto). Nella pittura invece la tempistica è breve e il risultato quasi sicuro. Questa è la ragione per cui Castelli riesce ad esser così produttivo, realizzando una gran quantità di acquerelli e pastelli, e tenendone la contabilità con orgoglio. Il “vezzo” di guadagnare con la pittura, o quantomeno di rifarsi delle spese dei colori e di tutti i materiali necessari, è da ricondurre a una logica efficientista che è comunque più tipica dell’architetto imprenditore che del pittore.

Ma, scusatemi per questo abbastanza lungo inciso sulla pittura, mi fermo qui, altrimenti questa presentazione finirebbe per essere una cosa diversa da ciò che invece è e deve essere: l’elogio e l’omaggio a un grande architetto marchigiano, dunque nostro, nel 90° anno della sua vita, e la verifica, a resoconto,  di un tentativo, indubbiamente riuscito, “di cambiare a proprio modo il mondo, almeno un poco”.


Lucio Del Gobbo


 
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